jueves, 12 de octubre de 2017

IL CAMMINO DELLA SPERANZA

Di sogni ne ho tanti nel cassetto, sotto il letto, dietro la porta, sul divano, dentro il frigo, appesi al soffitto. Vorrei pubblicare i miei scritti, tornare a lavorare, imparare una nuova lingua, diventare brava a ballare, vincere la paura di andare in bici, viaggiare, viaggiare e viaggiare…

…Ma c’e un sogno che alberga in me, da prima che io nascessi. Non è un sogno intimo né personale, al contrario credo e mi auguro sia un sogno collettivo. Il sogno che ogni volta urla con più forza dentro di me è “una Colombia in pace”. Per chi non conoce la storia della mia patria può sembrare banale e per chi la storia la conoce bene può sembrare utopico.

Scusate, io parlo e parlo e ancora non mi sono presentata. Piacere, sono la figlia di Marta la maestra, si proprio quella che dentro e fuori della scuola lavora sempre per aiutare i più bisognosi. Mio padre, invece, si chiamava Pedro e dico si chiamava perché sono orfana di padre, anzi, sono orfana di una guerra che da 50 anni flagella la Colombia. Pedro faceva il militare. Una mattina i miei fratelli e io lo abbiamo abbracciato per le gambe, nessuno di noi arrivava al metro d’altezza. Abbiamo pregato il babbo di non andare via. Lui promise a mia madre che quella sarebbe stata l’ultima missione, le comunica che vuole lasciare l’esercito per godersi la famiglia e perché  stanco di lottare per una guerra senza senso. Quello stesso giorno muore.

Io lavoro come mamma h24, ho due figli e insieme a mio marito siamo quello che chiamano coppia mista, anche se io preferisco il termine famiglia multi culturale.

Figurati che un giorno, mentre guardavo le olimpiadi con mia figlia, pensavo come questi giochi ti diano il senso di un mondo in fratellanza. Ma una volta finite le olimpiadi, il mondo torna a essere quel posto interessante, ma pieno di barriere tra i popoli. Io rimuginavo su queste cose mentre mia figlia, seguendo una gara di ciclismo, tifava per gli atleti delle sue due patrie. Lei ha tre anni e un modo tutto suo di vedere le cose. Quel giorno, dopo diverse medaglie vinte da entrambe le squadre, decidemmo che dovevamo festeggiare con una torta.

Qualche tempo dopo, il mondo si sveglia con due notizie straordinarie che riguardano ambe patrie dei miei figli. Da questo lato dell’oceano, la terra trema con furia nel centro Italia. La più grande preoccupazione di mia figlia è: “con che cosa giocheranno quei bimbi che hanno perso tutto?” Nel suo grande cuore incontra la soluzione.

Juanita - Ho una idea! Condividiamo i miei giocattoli con i bimbi che sono rimasti senza casa.

Io - Ottima idea!

Juanita corre nella sua stanza e prende il suo giocattolo preferito. Pensate la grandezza del gesto. Non ha scelto un giocattolo vecchio, rotto, senza batterie, né quello con cui non gioca mai, ma ha scelto il suo preferito per donarlo a bimbi che nemmeno conosce. In più lo pettina,  gli lava i denti e chiede una scatola con fiocco per inviare questo bel regalo ai bambini e renderli felici. Disegna dei pacchetti regalo su fogli di carta e li lancia dal balcone nella speranza che il vento li porti ai  bimbi che sono rimasti senza casa.

L’ atteggiamento di Juanita, mi fa pensare al potere di guarigione che hanno le parole: scritte, cantate o nel caso di mia figlia la parola disegnata. A tal proposito, evoco il Festival Internazionale di Poesia di Medellin, perchè all’epoca del narcotraffico, quando vigeva il divieto di frequentare certi posti o uscire a certe ore, gli organizzatori del festival, attraverso  i recital , hanno dato l’opportunità al popolo di riappropriasi delle loro piazze e godere delle loro città. Giuro che ogni parola di ogni poeta ha fatto per anni, risvegliare in me la speranza di pace.

La mattina del terremoto, nell’altro capo dell’oceano, dopo mezzo secolo di guerra viene firmato un accordo di pace tra gli esponenti delle Farc e il governo Colombiano. Il popolo è chiamato alle urne il 2 ottobre, per votare il referendum che convalida l’accordo.  Sebbene non tutti siano favorevoli all’accordo di pace, l’intero processo è stato sostenuto nel tempo, in maggioranza dalle vittime del conflitto. Nel mio vissuto ho imparato che le guerre lasciano solo miseria economica e morale. E poi, mia figlia con il suo grande cuore, mi ha insegnato che per risolvere i problemi prima si chiede scusa e poi il permesso. E’ proprio questo che vorrei. Che noi colombiani chiedessimo perdono per gli errori commessi e il permesso per scrivere una nuova storia.

Per me è importante che i miei figli conoscano la storia delle loro patrie, e per questo racconto loro perché vado a votare: 

“c’era una volta un paese chiamato Colombia, dove i contadini erano molto tristi perché  non avevano una terra sulla quale coltivare le patate, le cipolle, le…”

Juanita - Le carote!

“…le carote. I contadini hanno protestato per avere un pò di terra ma i governanti non li hanno ascoltati,non hanno parlato con loro, hanno solo cominciato a urlare. Anche i contadini arrabbiati hanno incominciato urlare e nessuno dei due interlocutori ascoltava le ragioni dell’altro per trovare insieme una soluzione. Poi sono arrivati i poliziotti, ma anche loro senza ascoltare hanno cominciato a urlare. Quindi sono arrivati degli imprenditori che hanno delle fabbriche per fare con le patate il purè e con le cipolle la zuppa e con le carote la torta…

…ma anche loro hanno urlato senza ascoltare e così tutti quelli che arrivavano urlavano senza ascoltare, invece di trovare una soluzione ogni volta si arrabbiavano di più, al punto da picchiarsi. Tutte queste persone hanno litigato per 50 anni…”

Juanita guarda in alto, prova a immaginare quanti anni sono 50, poi mi guarda e dice “ meglio se contiamo fino a otto”.

“…queste persone hanno litigato per otto anni, fin quando un giorno si sono seduti a dialogare per provare a trovare insieme una soluzione . Tutti hanno preparato qualcosa da mangiare e intorno al tavolo hanno discusso sulle possibili soluzioni. Prima hanno trovato la radice del problema, la mancanza di terra. Così il governo promise un pezzo di terra a ogni contadino purché coltivassero frutta e verdura, gli imprenditori avrebbero comprato dai contadini la frutta e la verdura per trasformarla in zuppe, pure, torte…i  poliziotti  avrebbero protetto tutti. L’accordo è stato messo per iscritto, affinché nessuno dimentichi gli impegni assunti per mantenere la pace.

Adesso tutti i colombiani possono votare, scrivendo in un pezzetto di carta “Si” se accettano questo accordo di pace, oppure “No” se pensano che ci sia un’altra soluzione. Poi mettono il pezzetto di carta scritto in una scatola attraverso un buco. Io scrivo “Si”.

Juanita si emoziona e con gli occhi pieni d’illusioni  mi dice:

Juanita: E io scrivo un “Si” gigante accanto al tuo per aiutare a fare la pace!

Purtroppo ha vinto il “NO” per un 1% di margine, ma a Juanita ho detto una dolce bugia e lei ha preparato una torta per festeggiare questa finta vittoria. Io invece ho quasi pianto nel vedere sfuggire questa occasione. 

Due giorni dopo, accade l’inaspettato. Il presidente della Repubblica Colombiana riceve il Premio Nobel per la Pace, in nome del popolo colombiano e delle vittime di guerra. Papa Francesco parla con quelli del “SI” per incoraggiarli a non lasciare la strada della pace e con quelli del “No” per invitarli a lasciare da parte l’orgoglio  e non ostacolare così l’accordo. Tutti si sono seduti di nuovo intorno ad un tavolo raggiungendo un nuovo accordo. 

Adesso la pace, con la sua riforma agraria, con la riparazione dei danni subiti per le vittime, l’inserimento nella società degli ex guerriglieri, con la fratellanza tra il popolo deve passare dalla carta alla vita di tutti i giorni. Oggi più che mai ho la certezza che il processo di pace sia un cammino possibile. Credo in una nuova storia scritta con il cuore e la sapienza dei bambini ed immagino mio padre che sorride da lassù.


Hannalucida
Ottobre, 2017
     






jueves, 14 de septiembre de 2017

CARTA PARA EL CONSUL

Escribo la presente con la esperanza que la Embajada de Colombia en Italia, representada por el cònsul Beatriz Helena Calvo Villegas, tome cartas en un asunto que me llena de indignación.

Resulta que al regresar caminando del supermercado en compañía de mis hijos, veo en una vitrina un maniquí con un saco que dice “NARCOS”. Inicialmente pienso que me equivoqué al leer, tal vez dice MARCOS. Entonces me detengo incrédula de lo que ven mis ojos. El maniquí tiene un saco que dice “ NARCOS, PLATA O PLOMO”. Todo en la vitrina hace alusión al tema del narcotráfico.

Yo quedo sin respiro. Mis hijos aún no saben leer porque son pequeños, pero se dan cuenta que algo me disturba y se preocupan. Les explico que ese saco tiene una frase ofensiva y que no me gusta. Una vez en la casa le cuento a mi marido lo sucedido y él tímidamente dice “tal vez es por la serie de televisión Narcos”.

Tal vez se refiere a esa serie, pero yo no soy tan básica como para darle la culpa a la producción del programa. Pues si a eso vamos, el año pasado en un canal trasmitían Narcos, programa que da cuenta de la cultura mafiosa colombiana; y en otro Gomorra, una serie sobre la camorra que es una de las mafias italianas.  Sin embargo, yo ni he visto ni creo que esté permitido la venta de camisetas que digan “VIVA LA CAMORRA”.




Lo que me indigna es que la marca de ropa y accesorios que diseña y vende estas cosas, está haciendo apología al delito, está legitimando una cultura de ilegalidad y haciendo creer que es “figo” aquello de plata o plomo. 

Pues le cuento al dueño del almacén, que seguramente en buena fe y en modo honrado vende la ropa; le cuento a las señoras que atienden el negocio; le cuento al diseñador de esta linea de ropa; le cuento a la señora Cónsul y a quien le pueda interesar, que la cultura del narcotráfico no es una figada, no tiene nada de bacano lo que nos pasó en Colombia durante los años duros del narcotráfico ni son una nota las secuelas que dejó.




Yo era una niña, pero me acuerdo que en más de una ocasión llamamos a la policía para avisarles que había algún carro sospechoso parqueado desde hace rato en la calle que en esa época conectaba nuestro barrio con la autopista. Unas veces era un carro bomba y otras un muerto dentro del carro.

Recuerdo una generación de hijos de “buena familia” desaparecida, perdida, desperdiciada. Recuerdo la nube de humo de la bomba de La Macarena. Recuerdo defensores de derechos humanos y líderes políticos y comunitarios exterminados. Recuerdo periodistas callados a tiros. Recuerdo que la vida de un policía valía un yoyo y que nadie quería tener un CAI cerca a la casa. Recuerdo los toques de queda.

Recuerdo que creciendo conocí a otros hijos de familias pobres que viven en los barrios populares del otro lado del río. Sus familias ganaron mucha plata trabajando en las cocinas de los narcos. Pero a distancia de años una de esas jóvenes me dice “ eso no valió la pena, al final nos quedamos sin familia y sin plata. Yo me salvé  porque me escondí…de mi familia quedamos solo nosotros tres”.

Esto es solo la punta de lo que le pasó a Colombia cuando le estrechó la mano a la cultura mafiosa y se dejó corromper. Repito, no le doy culpa a la serie de televisión, es más, es un bien que la televisión, el cine y la literatura nos refresquen la memoria y den cuenta de los diversos fragmentos que componen nuestra historia llena de esperanzas y de dolores.  

Sin embargo, espero que no sea lícito poner de moda en las vitrinas de Italia o de cualquier otro lugar del mundo a los NARCOS. Y sobre todo espero que la Embajada de Colombia se pronuncie al respecto.





Hannalucida
Septiembre 14 de 2017